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Progressismo performativo: come le aziende si lavano la coscienza

Approfondiamo i casi di progressismo performativo che si sono visti di recente. Perché censurare Community è progressista solo di facciata? Perché il cambio di rotta della Wizards of the Coast è invece positivo? Cosa c’entrano gli attivisti di Black Lives Matter con tutto questo?

Nell’ultimo mese abbiamo visto un’ondata di proteste contro il razzismo sistemico delle istituzioni statunitensi, contro il quale sono state chieste riforme, una ri-distribuzione dei fondi della polizia e una maggiore consapevolezza contro il razzismo istituzionale. A favore del movimento Black Lives Matter si sono schierate moltissime realtà, da attori di Hollywood ai grandi marchi della moda, dagli youtuber ai siti di informazione. Contro questo supporto, abbiamo anche visto alzarsi gli scudi di realtà reazionarie, come nel caso della lista dei Traitors of America di One Angry Gamer.

Con l’andare avanti delle proteste negli Stati Uniti, molte realtà del mondo dell’intrattenimento hanno iniziato a revisionare il proprio catalogo, alla ricerca di prodotti potenzialmente offensivi, da eliminare in maniera preventiva. Si tratta di notizie che ormai ben conosciamo. E che hanno fatto la gioia dei media italiani, prontissimi a riproporre come scelte definitive delle grandi aziende quelle che poi si rivelavano provocazioni di troll.

Analizziamo un po’ queste revisioni preventive. In quali casi sono sensate e ben fatte? In che frangenti invece sono totalmente gratuite? Si può davvero parlare sempre di censura? Queste decisioni sono state prese consultando attivisti/e del movimento Black Lives Matter, o comunque esperte del settore? E perché parliamo di progressismo performativo?

Un commento della giornalista Oiza Obasuyi sul progressismo performativo di Netflix e HBO
Un commento della giornalista Oiza Obasuyi sul progressismo performativo di Netflix e HBO

Progressismo performativo: cosa si intende?

Prima di iniziare, ritengo opportuno fare una piccola nota sul termine chiave di questo articolo, ossia “progressismo performativo”.

Il progressismo performativo si usa per descrivere un’attitudine che di facciata si dichiara progressista (ossia che è a favore dell’accellerare l’evoluzione della società in ambito politico, sociale o economico), ma che in realtà nasconde dei pregiudizi verso le stesse categorie di persone che si dichiara di sostenere. Per fare un esempio, una persona che fa progressismo performativo dichiarerà in pubblico di non essere razzista, per poi ignorare delle criticità che sono definite razziste dalle persone non bianche. Questo articolo di The Harvard Crimson può essere un buon punto di partenza, poiché spiega bene il progressismo performativo di Katy Perry.

Il progressismo performativo è un tema di ricerca piuttosto vivo in sociologia, development studies e cultural studies, soprattutto per quel che riguarda l’accettazione delle persone queer (quindi non eterosessuali e/o non cisgender). Casi di progressismo performativo nei confronti delle comunità queer si vedono quando delle persone etero e cisgender si dicono aperte e accoglienti nei confronti di vicini queer, ma a patto che adottino uno stile di vita “convenzionale”, ossia che si sposino e abbiano/adottino dei figli, conformandosi quindi a ciò che molte persone eterosessuali considerano “normale”.

L’adeguarsi alle scelte di vita tradizionali delle persone eterosessuali, o il considerare queste scelte la norma è detto “eteronormatività” e dunque le aspettative che abbiamo appena visto sono aspettative “eteronormative”. Supportare i diritti delle persone queer, aspettandosi però che si adeguino ad uno stile di vita eteronormativo è una forma di progressismo performativo: di facciata si è progressisti, ma non si fa lo sforzo in più per comprendere meglio la vita delle persone che si dice di supportare.

Un progressismo solo di facciata, non ragionato e non fatto dalle minoranze

Pertanto, il progressismo performativo è tendenzialmente fatto da persone che non appartengono alla minoranza verso cui ci si dichiara progressisti, e che non sono interessate a comprendere davvero le lotte e le rivendicazioni di queste minoranze. Sebbene le persone che fanno progressismo performativo possano essere sincere nei loro sentimenti, la loro tolleranza tende ad estendersi solo nei limiti della loro confort zone, e quindi saranno tolleranti solo verso le persone che giudicano “normali”, senza mai mettere in discussione il proprio modello di società.

Per questo motivo, le esternazioni di progressismo performativo saranno per lo più solo formali, e prive di contenuti ragionati. Sono tali le richieste di accettare le persone di minoranze motivate dall’essere tutti uguali, che è un tipo di mentalità che banalizza l’integrazione delle minoranze. È sempre tale l’uso di un linguaggio politicamente corretto che però non si interroga su quali narrazioni stereotipate produciamo, danneggiando le minoranze, e quindi evitano offese come “ne*ro”, ma non affermazioni alienanti come “sei così esotica!”. Infine, è progressismo performativo anche il togliere un episodio di Community in cui c’è una pseudo-blackface, senza interrogarsi su come la rappresentazione delle persone nere sulla propria piattaforma sia veicolata negativamente, ma in modi più sottili.

Passiamo, quindi, ai singoli casi da analizzare.

Un esempio di blackface da 30 Rock, cancellata in nome del progressismo performativo
Un esempio di blackface da 30 Rock, cancellata in nome del progressismo performativo

Cancellare episodi da serie TV a causa della blackface: un esempio di progressismo performativo

Come ben sapete, Netflix ha cancellato un episodio della serie comica Community, ossia Advanced Dungeons & Dragons, poiché conteneva un caso di blackface. Se volete saperne di più sulla blackface, sulla sua storia e sul suo uso in Italia, vi rimando a questo eccellente video del canale Afroitalian Souls.

Nell’episodio in questione, i protagonisti della serie giocano a D&D e Chang, l’antipatico professore di spagnolo del community college, interpretando un Drow, si dipinge la faccia di nero e indossa una parrucca bianca. Inevitabilmente, quindi, il trucco di Chang finisce per essere disturbante, poiché richiama ampiamente una blackface. Questa somiglianza viene sottolineata anche nell’episodio stesso, quando Shirley, che è una donna nera, commenta “Are we gonna pretend to ignore that hate crime?”.

Ora, questa decisione di Netflix è un caso abbastanza esemplare di progressismo performativo, e adesso cercherò di spiegare il perché. Innanzitutto, è piuttosto evidente che si sia trattato di una decisione interna dell’azienda, fatta per dichiararsi solidali al movimento Black Lives Matter, ma senza che questa cancellazione fosse stata chiesta dal movimento BLM. In secondo luogo, si tratta di una decisione che parrebbe esprimere più una volontà di lavarsi la coscienza, piuttosto che di affrontare in maniera critica e matura il problema.

Una cancellazione tardiva e non ragionata: la critica di Racquel Gates

In tal senso, infatti, Racquel Gates, professoressa di Cinema al College of Staten Island, commenta la cancellazione di questo episodio da Community e di altri episodi con blackface da Scrubs, The Office e The Golden Girls, nel seguente modo:

It’s a weird moment to be living in, as a society and also for me as a Black person, I’m being asked to play along with this ruse that white people and white companies weren’t aware of these things when they obviously have been. Whether they chose to care or not is a different matter.

Quindi, la rimozione di questi episodi non solo giunge come una scelta tardiva, ma anche poco ragionata. Infatti, Gates sottolinea che queste cancellazioni non incitano ad una riflessione su come e perché questi episodi siano stati scritti e prodotti. Quindi, sostanzialmente, cancellare questi episodi è una scorciatoia per dare un’immagine progressista della propria azienda, senza però confrontarsi con chi ha prodotto in primo luogo questi episodi problematici scegliendo di usare la blackface.

Inoltre, l’uso stesso della blackface è indicativo (“indicativo” non significa “accettabile”, chiariamoci!) del periodo storico in cui la serie è stata girata: in The Golden Girls (1988) è indicativa di come si discutevano le tensioni etniche dell’epoca, mentre in Community (2009-15) è propria del tipo di umorismo di quegli anni, basato sullo shock e sul superare i limiti di ciò che è accettabile. Infatti, Gates utilizza serie come The Golden Girls per le proprie lezioni, proprio per approfondire queste tematiche:

These are living documents as much as they’re also evidence of a historical time period. Being able to sort of reframe for the audience how we make sense of these feels like a much more productive lens than taking them out of circulation.

Idee alternative per parlare del razzismo in una serie TV senza cancellarne degli episodi: il commento di Alanna Bennett

Pertanto, episodi di questo genere possono essere definiti problematici, possono essere definiti razzisti, possono essere attaccati, ma se vengono cancellati dalle piattaforme di streaming non si sta combattendo il razzismo, non si sta educando il pubblico, ma si sta impedendo di parlare di questi episodi e del loro razzismo. Non si tratta nemmeno di damnatio memoriae, bensì di un progressismo performativo che in realtà cerca di nascondere la sporcizia dei propri programmi sotto al tappeto.

Piuttosto che cancellare questi episodi, è più utile dare loro un trattamento alla Via col vento, che è rimasto sul canale della HBO, ma accompagnato da un documentario che esamina le sue posizioni razziste. Il progresso si può avere, infatti, comprendendo gli errori del passato e cercare di non commetterli più: pertanto, è più importante che i prossimi prodotti cinematografici non abbiano casi di blackface, piuttosto che cancellare i prodotti del passato che veicolano idee razziste. Cito quindi le parole di Alanna Bennett, scrittrice televisiva afroamericana:

Not sure I get taking every ep with blackface down. Why not put a disclaimer on them instead? “On further reflection the creators of this program realize they were being insensitive assholes” I’d rather have an archive of the mistake and apology than erasure that it happened.

I want the world to KNOW that the creators of How I Met Your Mother, in the 2010s, thought that a yellowface episode was OK. If they’ve rethought that decision, I want the world to know that too.

As @HayesBrown pointed out to me, old Looney Tunes episodes have disclaimers. Not suggesting the same language be applied to blackface eps of modern times, but a version of this just feels slightly more honest.

Avvertimento presente prima degli episodi dei Looney Tunes
Avvertimento presente prima degli episodi dei Looney Tunes

Come il progressismo performativo ignora le problematiche di cui attiviste/i si sono effettivamente lamentate/i

Vedendo ciò, è abbastanza chiaro che la decisione di eliminare episodi problematici da alcune serie televisive non venga dagli attivisti di Black Lives Matter, bensì sia una scelta delle singole aziende.

Le critiche a serie TV con problematiche razziste ci sono sempre state e sono state generalmente fatte da attiviste/i appartenenti alle comunità minoritarie interessate. È stato questo, per esempio, il caso delle polemiche nei confronti di Nagini o della pavida rappresentazione queer di Silente in Animali Fantastici, e perfino l’idea di non avere un cast per lo più slavo per la serie di The Witcher è stata malvista da critici slavi. Allo stesso modo, la rappresentazione queer fatta col contagocce da parte della Disney è stata sempre ampiamente criticata da attivisti/e della comunità LGBTQIA+, così come è stato criticato da attivisti/e trans il casting di uomini cisgender per interpretare donne trans. Anche la critica al mediocre trattamento del personaggio di Finn in Star Wars, L’Ascesa di Skywalker compresa, e nel fandom di Star Wars è generalmente portata avanti da persone nere.

La blackface: un’icona razzista facile da eliminare

Insomma, ci sono molti problemi legati al razzismo, al sessismo e all’omolesbobitransfobia nel cinema e nella televisione. La blackface è parte di questi problemi e utilizzarla senza porla in un contesto critico è certamente poco sensibile nei confronti del pubblico nero. Tuttavia, è piuttosto evidente che, cancellando episodi con la blackface, ossia con un’icona razzista immediatamente riconoscibile, non è un modo efficace per affrontare il problema del razzismo nel cinema e nella televisione, poiché ignora non solo i motivi dell’uso della blackface in quei particolari episodi, ma anche tutti gli altri problemi (meno evidenti) legati al razzismo presenti nella televisione e nel cinema.

Togliere la blackface non aiuterà i registi/le registe neri/e a dirigere più film, non aiuterà gli attori/le attrici neri/e ad avere degli stipendi uguali ai loro colleghi e alle loro colleghe bianchi/e, non aiuterà ad evitare trope razzisti come il “magical negro”, la “angry black woman”, la mammy o la Jezebel (trovate la spiegazione di tutti questi stereotipi qui). Togliere la blackface da questi episodi è solo la cosa più semplice che queste aziende possono fare per sembrare progressiste, ma senza impegnarsi a farsi un esame di coscienza. Ecco, quindi, perché parlo di progressismo performativo.

E questo progressismo è ancora più performativo quando si nota che, generalmente, non è fatto o chiesto da attivisti/e di colore.

Immagine dei Vistani, ispirati alla cultura Rom
Immagine dei Vistani, ispirati alla cultura Rom

Cambiamenti anti-razzisti positivi: il caso della Wizards of the Coast

Certamente, ci sono casi in cui i cambiamenti proposti dalle aziende sono positivi. Per esempio, il cambio di rotta che la Wizards of the Coast sta facendo con D&D e con Magic è talvolta ben gestito.

I cambiamenti positivi su D&D: i Vistani

Innanzitutto, la revisione di Curse of Strahd e della caratterizzazione dei Vistani per rimuovere gli stereotipi associati all’etnia Rom, il tutto assumendo dei consulenti Rom è una buona cosa. Infatti, la caratterizzazione stereotipata dei Vistani e la loro vicinanza al modo dispregiativo con cui sono visti i Rom nel mondo occidentale sono tematiche che erano state portate alla luce già anni fa. Riporto qui solo una discussione risalente al 2016, ma il fatto che questa rappresentazione dei Vistani fosse problematica non è un argomento nuovo.

I cambiamenti positivi su D&D: Orchi e determinismo genetico

Similmente, il bisogno di caratterizzare meglio alcune Razze di D&D, specialmente quelle intrinsecamente malvagie come gli Orchi e i Drow, è un altro argomento di vecchia data. Infatti, già in uno dei saggi accademici presenti anche in Fuori dal Dungeon si può vedere come il dipingere gli Orchi e i Mezzorchi come intrinsecamente selvaggi, ossia con comportamenti sociali attribuiti non al contesto in cui sono vissuti, bensì alla loro genetica, sia già da tempo percepito come problematico.

Questa caratterizzazione, infatti, riecheggia le idee del determinismo genetico, ossia dell’idea che i comportamenti umani siano frutto dell’eredità genetica, e non dell’educazione ricevuta. In tal senso, il determinismo genetico ha dato alle idee razziste delle basi (poi rivelatesi false) su cui costruire la discriminazione dei neri e delle etnie non bianche, con affermazioni dello spessore di “i neri sono geneticamente più violenti dei bianchi”. Potrete quindi immaginare come il determinismo genetico, col suo razzismo scientifico, abbia poi contribuito alle teorie naziste e alle pratiche di eugenetica.

Mettere dunque nero su bianco in un manuale che Orchi e Mezzorchi sono geneticamente predisposti ad essere selvaggi e dunque a fare una “Carica selvaggia” richiama un po’ troppo il determinismo genetico. Dopo decenni in cui si è parlato di questi problemi, dunque, la Wizards of the Coast ha finalmente deciso di rivedere il modo in cui genetica e cultura influiscono sui personaggi.

I cambiamenti (forse) meno positivi su Magic The Gathering

La Wizards of the Coast ha anche avuto ragione nel cancellare alcune carte di Magic con un sottotesto razzista, come vediamo anche in questo articolo. In questo caso, però, bisogna anche notare che i motivi per l’eliminazione di alcune carte non sono chiarissimi, e in tal senso il silenzio della WotC non aiuta a rendere le sue motivazioni più comprensibili.

Questo silenzio, purtroppo, ci riporta sempre al discorso del progressismo performativo: è comprensibile che la WotC voglia togliere dal mercato queste carte, ma dovrebbe farlo dopo aver ampiamente spiegato le proprie motivazioni e dopo aver analizzato i motivi che hanno portato alla creazione di queste carte. Altrimenti si ha troppo l’idea della polvere nascosta sotto il tappeto.

Anche il progressismo performativo è frutto del bisogno di cambiamento, ma bisogna aspirare a qualcosa di meglio

Ad ogni modo, è importante notare che tanto le iniziative positive della Wizards of the Coast, quando quelle puramente performative di Netflix sono probabilmente una conseguenza delle proteste statunitensi dopo la morte di George Floyd. Se il progressismo performativo e raffazzonato di Netflix è evidentemente una mossa di politica aziendale, la reazione della WotC risponde invece a delle critiche presenti da anni ed è, in certi casi, supportata dalla consulenza di persone di minoranze.

Credo che, dunque, sia importante riconoscere quando il movimento Black Lives Matter abbia spinto molte realtà a fare autocritica nei confronti del proprio lavoro e dei propri prodotti, e reazioni come quella della WotC fanno sperare in un cambiamento in positivo del franchise. Tuttavia, l’esempio negativo di Netflix dovrebbe ricordarci che non possiamo mai aspettarci che le lotte sociali siano portate avanti dalle grandi aziende, poiché per loro è evidentemente più importante evitare le polemiche per non perdere spettatori.

E sebbene azioni come quelle della Wizards of the Coast siano lodevoli, è sempre necessario ricordarsi che non sono mai stati gli attivisti e le attiviste del movimento Black Lives Matter a chiedere a WotC o a Netflix di ritirare carte o episodi dal mercato. Pertanto, è fondamentale ricordarci verso chi bisogna incanalare il nostro scontento per queste operazioni di censura: non nei confronti di chi lotta per i propri diritti, ma nei confronti delle aziende che preferiscono far finta di non aver mai pubblicato cose razziste, piuttosto che confrontarsi con i propri errori.

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