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Codex Venator: Il Diario di Frate Venazio

DISCLAIMER: Codex Venator è una campagna condivisa per Dungeons & Dragons 5° Edizione, creata da Andrea Lucca, Alex Melluso ed Enrico Romeo. L’ambientazione tratta temi quali razzismo; misoginia; violenza esplicita; estremismo religioso; esperimenti su creature viventi; abuso di potere; limitazioni alla libertà personale e occultismo. Non si tratta di un’ambientazione dalle tematiche leggere e, per questo motivo, è bene che la lettura sia riservata ad un pubblico adulto.
In nessun caso gli autori di questi racconti, delle avventure di Codex Venator o di altro materiale da esso derivato intendono appoggiare o giustificare comportamenti illegali e lesivi della dignità delle persone.
L’Ordo Fabularis ringrazia la Magister Sermonis Alice Gritti per aver corretto i testi e aver collaborato alla stesura del racconto.

Disclaimer: Questi sono i racconti delle Cacce di Bologna. C’è rischio di spoiler per chi non abbia ancora giocato la prima stagione di Codex Venator.

Sento la necessità di scrivere queste parole nel (seppur vano) tentativo di lenire il terrore che attanaglia la mia mente, e per meglio fissare nella mia memoria le vicende che hanno visto me e i miei compagni di viaggio protagonisti di eventi che mai avrei creduto di poter vivere di persona.
Per quanto sia vero che in tempi così malati e difficili non è strano sentire di cose ben più terrificanti e incomprensibili, mai avrei immaginato di divenire involontario protagonista di così macabri racconti e testimone di una siffatta strage.
Se qualcuno dovesse mai ritrovare questi documenti, sappia che la mano che, tremante, scrive queste note, altri non è che di Fra’ Venazio. Sono stato inviato da padre Romeo e dal Dogma, per svolgere il mio periodo di apprendistato nella Città di Bologna, come é consueto fare per i nuovi adepti del che vogliono intraprendere il percorso dogmatico.
Spero che le parole che stanno correndo senza freni nella mia mente vengano legate indissolubilmente alla realtà attraverso questo mio scritto, perché vivano a imperitura memoria nella mente e nei ricordi di chiunque riuscirà a ritrovarle.
Sapendo dei pericoli al di fuori della cinta muraria della sempiterna Città romana, com’è consuetudine, ormai da diverso tempo prima di partire si è cercato di trovare un numero sufficiente di uomini e Cacciatori diretti verso le terre emiliane, per unire le forze e rendere più sicuro il viaggio di tutti.

Persino la carrozza, rinforzata con pesanti sbarre di ferro (tanto pesanti da dover richiedere l’utilizzo di ben otto cavalli per il suo traino), non riusciva a togliermi di dosso quell’ opprimente sensazione di tensione. Una tensione perenne e sussurrata, stillata lentamente dalla nebbia che ha circondato perennemente la spedizione durante tutto il viaggio intrapreso. A volte leggero manto che sembrava accompagnare il cigolio delle ruote verso un limbo infinito di oscurità e nero tepore, a volte invalicabile muro, tale da sembrare impossibile da attraversare.
Neppure la presenza dei Cacciatori romani, assolutamente necessaria e quantomeno obbligatoria per un così periglioso cammino, riusciva a lenire la pena di un viaggio ormai divenuto interminabile.

Soltanto al termine del terzo giorno di viaggio avvenne qualcosa che mai più riuscirò a cancellare dalla mia memoria, tanto da desiderare or ora di non aver mai ricevuto il dono della vista. Mentre ero intento a distrarre la mia mente ormai stanca e logora dall’agitazione, un primo violento colpo fece slittare la pesante carrozza, sbattendo le mie stanche membra verso il lato opposto della stessa. Prima ancora di poter riprendermi del tutto da quell’improvviso scossone, un secondo colpo, ben più violento, accompagnato dalle grida degli uomini e dai versi chiaramente sofferenti dei cavalli innanzi a essa, la fece completamente ribaltare su un lato, e me con essa.

Non so cosa sia successo nel mentre, ma quando riuscii a riaprire i miei doloranti occhi, un’orribile visione mi si parò davanti, corrotta dalla perversione del male e figlia della Straordinaria Realtà. Mai avrei immaginato di trovarmi di fronte a una così blasfema esistenza, tale da farmi desiderare di non aver mai intrapreso tale cammino.

Mentre ero riverso a terra, ricoperto fino alle spalle da sporco e fanghiglia e con il viso rivolto al cielo, di fronte a me appollaiato sul mio torso un piccolo essere, fuori dalla grazia dell’Innominato, mi fissava con i suoi occhi vuoti, in quello che a malapena poteva definirsi un viso. Ricoperto di fango o costituito di esso, non saprei dirlo con certezza, la creatura emanava un olezzo di marcio e terra bagnata, che permeava le mie narici, mentre avvicinava quella che ipotizzo essere la sua bocca al mio viso.
Che sia stata la volontà dell’Innominato, che sia stato l’ultima scintilla di speranza esplosa nei miei ultimi momenti, non so con quale forza sono riuscito a gettare quell’orrenda creatura contro quello che rimaneva della carrozza ormai divelta rivelando all’urto, sotto quel manto di fango e carne putrefatta, un piccolo teschio del tutto umano.
Inorridito da quella scena, intontito e stremato, ho sentito la presenza dell’Innominato che per mezzo della sua volontà mi ha dato la forza di poter reagire e fuggire.
Intorno a me, l’orrore in Terra. I corpi dei Cacciatori mutilati appesi lungo i lati della strada, come un macabro ornamento per celebrare la mia fuga. Sotto quei corpi gocciolanti, decine di creature uguali a quella che mi aveva aggredito poco prima mi fissavano, o meglio, fissavano un punto innanzi a loro, come devoti fedeli che prendono silenziosamente parte a una macabra processione.  

E quando ormai il mio corpo non rispondeva più alla mia mente, quest’ultima fu catturata da quella che sembrava a tutti gli effetti una mefistofelica risata, proveniente da un lato della strada.
Non so quanto ho corso.
Non so quanto a lungo ho pregato.
So solo che quando la mia speranza stava per spegnersi come l’ultima delle candele votive, vidi una luce, più luminosa ad ogni passo, accendersi innanzi alla mia vista. Enormi torri svettavano nel buio, innalzando al cielo le loro braccia infuocate, a illuminare le mura e i tetti della grande Città che imponente si ergeva oltre il portone che avevo di fronte. Bologna si stagliava innanzi a me, clemente e devota.
Con le ultime forze ho chiesto soccorso, e da lì ricordo solo i giorni passati in quello che i locali chiamano l’Ospedale della Morte, e le amorevoli e coscienziose cure del Magister Galvani, medico e curatore presso di esso.
Anche se sono passati diversi giorni ormai da quel terribile evento, ancora non riesco a dimenticare l’orribile vuoto delle pupille di quegli esseri e quella risata. Quella acuta, stridula e stizzita risata, che ancora mi accompagna, stringendomi il cuore in una fredda e rigida morsa, nei miei più profondi incubi.

Frate Venazio Cimisella

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